«Colui che testimonia la fede», in particolare «chi è disposto a subire la morte piuttosto che rinunciare alla propria fede religiosa», specificamente «uno dei cristiani che un tempo venivano messi a morte perché non rinnegavano le loro credenze». Questa definizione risale all’inglese antico martyr, dal latino tardo martyr (da cui anche il francese antico martir, lo spagnolo martir, l’italiano martire, ecc.), e deriva dal greco dorico martyr, in precedenza martys (genitivo martyros), usato in ambito cristiano per indicare appunto il «martire», ovvero letteralmente il «testimone».
Si dice a volte che questa parola greca sia collegata a mermera, che significa «cura, preoccupazione», derivante da mermairein («essere ansioso o pensieroso»), e risalente alla radice ricostruita del proto-indoeuropeo *(s)mrtu- (da cui anche il sanscrito smarati, «ricorda», e il latino memor, «memore»). Tuttavia, Beekes ha sollevato obiezioni fonetiche a questa teoria e suggerisce piuttosto che si tratti di un prestito dal pre-greco.
Per il cambiamento di significato da «testimonianza» astratta a «testimone», si può confrontare il francese témoin («testimone»), che deriva dal latino testimonium; in inglese, witness (sostantivo) significa «colui che testimonia», originariamente inteso come «testimonianza».
La parola è stata adottata direttamente nella maggior parte delle lingue germaniche (antico sassone, antico frisone martir, antico alto tedesco martyr, ecc.), ma nelle lingue norrene si è usata una formazione nativa, pislarvattr, che significa letteralmente «testimone di tortura».
Il significato di «chi subisce la morte o una grave perdita per difendere o sostenere una causa o una fede» (come l’amore, ecc.) risale alla fine del XIV secolo. L’accezione più generale di «sofferente costante, vittima di sventure, calamità, malattie, ecc.» compare negli anni ’50 del XVI secolo. Il termine Martyr complex, che indica un «desiderio esagerato di auto-sacrificio», è attestato nel 1916.